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"Chi, come me, dopo lunghi giorni di agitazione e non meno interminabili notti insonni, occupato solo
ad esaminare e considerare profondamente e attentamente la propria situazione economica e sociale, destinata a raggiungere limiti indiscutibili di calamità e di miseria, è stato costretto a lasciare la sua cara casa, a intraprendere il cammino oscuro dell'imprevisto, illuminato solo dall'incerto pensiero di un futuro migliore, non può parlare dell'emigrazione come di qualcosa di semplice e futile, come di un normale corso della vita, perché sa che per lui è stato un passo arduo e duro, una svolta decisiva nella propria esistenza."»

Erano passati alcuni anni dalla fine della guerra quando Angelino decise di emigrare:
"Volevo emigrare in Australia e ho aspettato per quattro anni l'esito della mia richiesta.
Non ne ho mai saputo nulla". Le condizioni economiche, intanto, peggioravano di giorno in giorno.
Mi hanno costretto a fare il grande passo, come si suol dire: ho firmato per la Francia
e grazie ad alcuni "colpi di pistola" riuscii a partire nel marzo del 1956.
Chi poteva partire tranquillamente, lasciandosi alle spalle la giovane moglie con due teneri bambini,
e senza il minimo indispensabile per le loro necessità quotidiane?"

L'unica speranza era riposta in questo sacro "bonus di espatrio", per potersi mantenere almeno fino a quando fosse stato in grado di inviare del denaro, ma solo dopo cinque mesi questo innegabile diritto gli fu riconosciuto. Il mezzo con cui gli emigranti furono autorizzati a viaggiare non fu, infatti, una dimostrazione di solidarietà:

«Da Olbia a Civitavecchia, per noi sardi, non c'erano cuccette, per quanto misere, nemmeno a pagamento, per cui eravamo costretti a dormire lungo i corridoi.
Sul treno che ci portava da Civitavecchia a Milano, eravamo confinati in due "vagoni emigranti" senza poter entrare nel vagone ristorante. Perché? Eravamo diventati indegni perché andavamo a cercare lavoro? Quando arrivammo a Forbach il 3 marzo 1956, alla nostra grande sorpresa, prima che il treno
si fermasse, un omino, con la mano alzata in segno di buon umore, con voce metallica, in puro dialetto siciliano, ci salutò gioiosamente: «Benvenuti, emigranti italiani!»